Chi sono

Mi diletto, tra le altre cose, di scrittura.
Condivido i miei lavori e gradisco commenti.

domenica 21 dicembre 2014

Agli Angeli



Il Divino nel quotidiano sulla S-Bahn di Amburgo ho incontrato.
Non suona bene ma l’ho visto! O meglio, l’ho vista.
L’ho vista, Signori, l’ho vista: la Madonna dei naviganti del Nord.
Non ci crederete, già afferrate gli smartphone, vi affacciate alle finestre dei browser per verificate se tale esista davvero, cosa sia: quadro, leggenda, o Meme.
Scettici miei: potrei averle inventate tutte io le informazioni sulla suddetta Madonna che troverete online.

Tanto vale fidarvi, rilassatevi come se fossimo nel ventre d’una nave. I flutti vi cullano... 3,2,1, immergiamoci.

Era qui sul treno, vi dicevo. L’ho vista.
E mi ha anche urtato il ginocchio per scendere a Reeperbahn.
Anche un altro ragazzo la fissava, concupiscente. Un ragazzo- forse nordafricano, dalla barba folta e scura, magro. Teneva uno spesso Libro sotto il braccio e indossava una camicia bianca larga, troppo larga. Forse la camicia era una di quelle non slim, a marchio europeo, disegnate secondo l’assioma per cui un uomo alto un metro e ottanta debba esser altrettanto largo. E così la camicia bianca scendeva troppo abbondante e un po’ buffa a ‘sto ragazzo, in barba alla dieta continentale e ai carboidrati della birra. Oltre alla veste anche i suoi occhi erano bianchissimi e fissi, fissavano lei. La contemplavano.
Ma lei non faceva un cenno, indifferente e iconica.
Quattro occhi addosso e lei non se ne curava.

E’ così quando ci sei abituato, pensai.

E chissà cosa si celasse dietro quella seraficità. E che mi perdonino Muse, Santi, Poeti defunti, Avi, Posteri e voi lettori per quello che sto per fare. Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa, sto per macchiarmi della Hýbris più grande; lambirò le colonne d’Ercole della parola e cercherò di narrare del Divino.
“Madonna!” Direte voi. E se l’avete detto per davvero, mi compiaccio: di incarnazioni angeliche si narrava.

Capelli biondi, riflettendo il tiepido sole nord europeo, formavano una sorta di corona. Rincontrarsi all’altezza della nuca in un’unica, grande, treccia. Occhi dal taglio slanciato, il cui iride di ghiaccio avrebbe raffreddato il più latino dei pretendenti, rammentavano la natura angelica di quella carne. Naso piccolo e a punta, schiacciato all’altezza delle narici. Labbra dall’esiguo spessore e diafana carnagione arrossata sugli alti zigomi.Con le mani congiunte stringeva una coppa in cartone di caffè lungo. Sulla spalla destra un tatoo monocromo contrastava col pallore della pelle. Nulla di sacro raffigurato ma tra virgolette una citazione, memento sbiadito d’albe adolescenziali. Il filo nero delle cuffione verdi, lambendo la candida spalla, scendeva fino alle cosce, gelosamente custodite fin due dita sopra il ginocchio da un mini-gonna. E sulla nuda bianca pelle riposava un cellulare, dedicandole canzoni che lei sola udire poteva.
La riguardai nella sua composta postura. “Dev’essere così che pregano gli angeli ai giorni nostri”. Si estraniano ed eclissano nei propri pensieri. Mentre fan finta di nulla, meditano. Pregano. Sì, pregano anche per se stessi: anche loro chiedono grazia e perdono per aver dubitato.
Gli Angeli, come noi, si chiedono dove vanno.  
Gli Angeli si chiedono, “nell’ogni-giorno”, se ci credono ancora abbastanza nella loro missione. Se esistano ancora la Bellezza e il Divino.
Far capire il verbo agli uomini deve essere un grosso fardello.

Incontrando la Madonna dei Naviganti del Nord ho avuto una certezza, O signori: persino gli angeli vacillano. Finanche loro son imperfetti.

Si fermano due, tre… qualche minuto.

Pensano ai peccatori: a chi tortura l’amore con l’indifferenza; a chi si unge la bocca del placebo della calunnia per scacciar la bile della vergogna dovuta a un’ inferiorità auto-percepita. Gli angeli pensano ai bambini di un tempo, soffocati dalle ansie dell’animo adulto; ai castelli razionali e fragili, zavorra al decollo delle passioni carnali e artistiche.
Vedono le grida inaudibili dell’inferno dei viventi. Le toccano. Si scottano, vi si tagliano mentre cercano di ripulirle.
Poi fissano il vuoto. E riflettono. Mettono su la musica per sentirsi meno soli, sentono il brivido sulla pelle nel bus d’estate. Fissano fuori dal finestrino per non dare nell’occhio.

Ma la superiorità degli angeli sta nel fatto che loro ripartono, sempre e comunque. Più forti. Si fanno beffa e ridono delle proprie incertezze.
Sì: ridono quando si incontrano tra angeli, se le raccontano tutte le loro paure, è così che le superano.
E non si stancano mai. In saecula saeculorum.
E Pace portano ancora. E ancora.

sabato 16 aprile 2011

Caparezza al rogo subito!


CAPAREZZA – Il Sogno Eretico (Universal) Genere: Pop-Rap

Ritorna Caparezza.

Nessun dorma, traccia d’introduzione, apre il sipario su uno show lungo sedici brani che il rapper condurrà sulle note di un leitmotiv ben preciso: la crisi profonda in cui versa l’Italia.

Puccini è sola la prima delle citazioni “alte” (ma pur sempre popolari) utilizzate da Caparezza per dar spessore ai propri testi, ma anche per evidenziare- per contrappasso- la situazione odierna.

Ed è proprio Dante ad esser scomodato in Goodbye Malinconia, desolante jingle in stile 80s dedicato alla fuga dei cervelli: E pensare che per Dante questo era il “bel paese là dove ‘l sì sona” /Per pagare le spese bastava un diploma, non (…) buttarsi in politica con i Curricula presi da Staller Ilona (Cicciolina –ndr). Già: il rapper balza spesso in due versi dalla letteratura al pop, unificando il tutto attraverso la musicalità di rime, assonanze e giochi di parole.

Il sogno eretico del resto è proprio questo: un’ambiguità verbale, ma non solo. Sogno eretico è anche il titolo del brano centrale dell’album. Tre minuti e trenta in cui, uno per strofa, si canta di Giovanna d’Arco, Giordano Bruno e Savonarola. Tutti e tre “eretici”, rivoluzionari messi a fuoco, non come la Canon!

Il messaggio non è meramente politico, va oltre: bisogna svegliarsi dal sonno dogmatico. Così il Dito medio di Cattelan viene paragonato a quello di Galileo: capace di mandare in frantumi vecchi paradigmi per costruire certezze nuove, più solide.

Per tutto l’album il linguaggio del rapper è lo stesso di sempre: un mix di poesia, satira e invettiva. Tuttavia in Non siete stato voi, raggiunge la punta espressiva più alta nella carriera dell’artista finora. Il pezzo è un’autentica filippica urlata contro l’intera classe politica: Voi (…) che meritereste d’essere estirpati/ come la malerba dalle vostre sedi!

Il sound resta onnivoro: aperto a qualunque contaminazione, dalla lirica al hard rock, dall’industrial all’indie. Ogni pezzo segue un mood musicale a sé stante. Rispetto al precedente Le dimensioni del mio Caos, aumenta la sperimentazione (come in Ti sorrido mentre affogo) e cresce la presenza del Synth a discapito della chitarra elettrica.

Insomma, il rapper di Molfetta –al suo quinto lavoro- continua a volare alto e sorprende per la ritrovata rabbia con cui infiamma il disco, eretico al punto giusto. Finirà al rogo?

sabato 26 giugno 2010

BENEDETTO di Francesco Balacco (NUOVO!)

“Questo racconto parla di un uomo qualunque eppure è interessante!"

Benedetto non è un nome da protagonista, ma è così che mi battezzarono.
Sfrecciavo su una strada liscia come la linea del tempo.
Quella notte era densa e infinita.
No surprises dei Radiohead, una lenta ninna nanna, miagolava nella mia Alfa mentre gli alberi e le luci della città lampeggiavano fuori dal campo visivo, troppo veloci per raggiungerle.
Vidi due grossi fari ed una sagoma verde venirmi addosso, piantai la più lunga frenata della mia vita. Sfiorai l’autobus 91 e finì addosso ad un ragazzino.
Il botto.
Secco.
L’autobus, la frenata e l’impatto, mi rivedo uscire dall’auto, chiudere lo sportello ed urlare inebetito, caricare il ragazzino in auto e sgommare ancora, ma verso l’ospedale San Carlo.
Era stata una pessima idea svoltare per Via Tortona a quella velocità.
-Come ti chiami ragazzo? Stiamo andando in Ospedale, mi senti??- Tremolai acuto.
Alla settima domanda in dieci secondi la vittima colposa rispose stordita:- Si, si la sento… ‘Ntoni mi chiamo, sanguino molto?
-No non sanguini troppo ma di medicina non so nulla e poi è stato un incidente, è stato una frenata e insomma…
-Ma quanto sanguino?
-Ecco… Non tanto: così poco che il sedile ha ancora il suo colore.
‘Ntoni rise e poi aggiunse:- L’ho capito benissimo…
-Cosa?
-…che lei mente.
-Come?
-Lei correva, anzi scappava come un dannato, ha frenato per la 91 e non mi ha visto in tempo.
-…scappavo?
-Uno che guida così, non corre, scappa.
-Guarda, stai perdendo sangue è meglio che…
-Senta, mi ha dato una bella botta ma ho capito cos’è successo: lei stava scappando.
Tacqui perché era vero.
Chi mi inseguiva?
Nessuno.
Ognuno sfoga a suo modo i nervi di una giornata storta. Quando però si scopre che c’è qualcosa che è andato storto per anni ma non ce ne siamo mai accorti diventa più difficile.
Odiavo la puzza di gomma bruciata, odiavo i piloti improvvisati sulla circonvallazione, ma come un bambino scimmiotta chi detesta li avevo imitati.
Ero innocente, ero stato costretto da una ragazzina a comportarmi in quel modo.
‘Ntoni per un Karma errato stava soffrendo al suo posto.

Eccomi all’edificio, littorio, appena ristrutturato, tre bandiere si stendevano vanitose al vento godendosi un insolito sole di Gennaio.
Ripassavo il discorso e costruivo mentalmente il mio uditorio.
Ero preparato e ci tenevo a ben figurare.
L’aula, spaziosa e fredda.
I ritardatari prendevano posto.
Soundcheck dei microfoni.
Energia, sicurezza, qualità: tutti mi applaudirono.
-Tutto, bene, subito: sono i tre pilastri della contemporaneità è lì che si gioca la vita, out o off, vivo o morto, il mondo non ti aspetta. Rapido. La crisi? Va via dalla casa di chi sa cacciarla! Dobbiamo tutti ragionare così: Targets, cash, now! Ma non è così banale. Non si gioca per vincere la partita tre a zero segnando i tre gol in dieci minuti e guardando la partita gli altri ottanta.
Volete il mondo? Volete fare il lavoro che più vi piace? Non volete far nulla? Velocità ed efficacia per farlo. Ma la velocità non dev’essere solo orizzontale, deve scavare a fondo: dentro sé e attorno sé, cioè nel contesto contemporaneo.
Chi vince per davvero ha la scintilla del capire, capire con velocità appunto, capire prima degli altri.-
Ogni passaggio della mia argomentazione era stato seguito con attenzione, ogni mia parola bevuta con gusto. Avevo semplificato alcune mie riflessioni emerse negli studi degli ambiti economici a trecentosessanta gradi.
I ragazzini gradirono molto.
Ero in una scuola media superiore.
Avevo chiesto al mio Rettore d’essere inviato a presentare la nostra Università, lo feci più che altro per stimolo. Volevo “fiutare” qualcosa fuori dal mio solito recinto d’elite, da Master. Volevo annusare il profumo meno raffinato e più passionale delle menti fresche ed indecise. Volevo parlare a pensieri più lenti e meno atletici degli scattanti ragionamenti specialistici.
Stavo faticando a seguire il senso di una tipica domanda adolescenziale contorta e brufolosa quando un guizzo dall’ultima fila mi distrasse.
Una mano issata con sicurezza da trentenne.
Arrivò il suo turno.
Biondina e filiforme ma con occhi lucidi che mi bucarono le retine.
-Professore, lei parla di velocità, lucidità, insomma tutto sommato si rifà agli studi di McLowest?
-Mah guardi, McLowest si occupò piuttosto del rapporto tra la velocità del tempo moderno e…
Risposi un sacco d’altre robe, parlando a raffica ma con scarsa densità. Non ero sicuro di conoscere bene quello studioso: ricordavo fosse stato un sociologo interessato ai rapporti tra società e forme di mercato ma quel settore era affollato: vi studiavano in troppi, nessuno troppo rilevante per poterlo distinguere dagli altri. Buttai giù qualcosa che andava bene un po’ per tutti. Stavo già contraddicendo quanto appena detto: non ero veloce, non ero approfondito e del contesto attorno a me non stavo capendo nulla.
-La ringrazio Professore, è stato chiarissimo
-Prego, si figuri…
-Comunque McLowest me lo sono inventata io, non esiste.
Silenzio in sala.

Ecco quello stesso stabile littorio, incupito dall’uggiosa mattina mezzo invernale. Un ricordo quasi color seppia. Rivedo come un filmino di comunione in soggettiva quella mattina in cui decisi di proseguire gli studi avviandomi alle materie economiche.
Un articolo sul Corriere parlava del Financial manager.
Un tipo di uomo sicuro, rapido, intelligente…
Non era quello che a diciotto anni ero ma quello che sarei voluto diventare.
Non so quanti di voi abbiano scelto, abbiano capito o creduto d’aver compreso la propria strada in un secondo, in un lampo così rapido ed intenso. Una chitarra che hai avuto nell’armadio da sempre e che ora finalmente suona, un suono acerbo, scordato, ma che sa di musica. Strimpella un accordo mal riuscito ma reso sublime dall’allucinazione di vedersi su un palco a suonar sinfonie di scale per gli angeli.
Un secondo d’abbagliante appagamento nel vedermi quel Financial manager che non sarei mai diventato nella realtà.
Quel ricordo seppia si brucia, in un fuoco accecante e lento. Balla nel buio ed evapora.

-Scelta azzeccata la sua, complimenti e auguri per tutto…
-Grazie, professore grazie.
Una lode è per sempre.
Rieccomi all’esame di quel corso di Storia dell’economia. Materia che seccava parecchio i miei colleghi e che mi appassionò fin troppo.
Troppo per non farmi ripensare alle materie umanistiche, troppo per non invidiare da lì in poi la proprietà verbale ed il citazionismo equilibrato dei miei amici di Lettere. Fu così che tornai indietro sui miei galoppanti passi e mi avviai a studi storico –economici.
Dottorati e ricerche, tre pubblicazioni in un anno, i risultati furono eccellenti e subitanei.
Poiché il docente titolare si era trasferito lasciando vacante il posto, presentai richiesta formale stendendo una dissertazione per la Cattedra di Storia Economica.
Respinta.
Nei dodici secondi successivi la lettura della notifica accettai la sconfitta, ma poi mi chiesi chi avesse vinto al mio posto.

Laura Gamberti.

Mi recai dal Preside di Facoltà per vederci chiaro: gli avrei detto che volevo comprendere le mie mancanze per addrizzare il tiro in vista della prossima occasione.
Ma era uscito.
Trascorse una settimana in cui la rassegnazione levitò ed inghiottendola decisi di metter da parte anche la richiesta di chiarimenti.
Ennesimo Venerdì al Pub Panta rei: con qualche birra in più può nascere molta sincerità tra amici, compagni e persino conoscenti.
-Potrebbe andar meglio…
-Benedè, benedetto a te! C’hai un posto come assistente, t’hanno pure intervistato al Tg3 per l’ultimo libro, c’hai ventisei anni e ti lamenti? Io so due anni che aspetto per avere il contratto a regola!
-Si, Guido, ma quella lì… perché proprio lei?
-Non ho capito, di chi parli?
-Qualche tipaccia che gl’hai messo l’occhi addosso Benedè?
-No, no Benedetto parla della Laura…
-e chi è ‘sta Laura?
- Laura Gamberti, la dottoressa a cui hanno assegnato la cattedra di ruolo al posto suo…
-Ecco: se sapete già tutto che racconto a fare? Se il mondo conosce già il finale cosa narro a fare?
-Benedè a mica me l’avevi detta sta cosa! Questo è un colpodiscena!
-Colpo di scena? Davvero credevi diventassi Docente ordinario così facilmente?- Risi.
-E invece è un colpo di scena!
-Sapevo che non dovevi saperlo, sputtani le notizie più rapidamente del world wide web.
-Ma che vuodd veb e veb?? Vieni con me!

Guido mi prese la mano e mi condusse, anzi mi trascinò, per tutto il locale, pullulante di tavoli e gente.
Il pub, labirintico di suo, era ancora più disordinato da ebbro.
Mi sembrò di scivolare in quel caos alla velocità della luce: vedevo scomporsi le bocche dei commensali, i visi allungarsi, le parole materializzarsi per aria e confondersi, mi sembrò di perdere la cognizione dello spazio e quindi quella del tempo.
Ma non ero ubriaco.
Avevo solo deciso, per la prima volta nella mia esistenza, di ignorare lo scorrere dei secondi, di lasciarli andare. Avrei ignorato il tempo che mi dettava uno stupido display digitale vivendo per pochi, infiniti, istanti nel tempo che io scandivo per me stesso.
Mentre percorrevo trascinato fisicamente da Guido la confusione sudata di un pub, da qualche parte nella mia mente posizionavo una canna di bambù su un laghetto e lasciavo che gocce di rugiada vi colassero. Quel percorso labirintico verso la sorpresa che Guido aveva in serbo per me fu eterno. Suspense infinta verso il concetto stesso di ricevere una sorpresa.
Le mani dei commensali, le sedie, la puzza di birra, il lago, i bambù, un bambino che gioca.

-Benedè, guarda, guarda…- mi strattonò Guido, ghignando a bassa voce.
-Cosa…
Eravamo fuori. Maniche corte con le scarpe da ginnastica che si inzuppavano nella neve superstite stesa a chiazze nel parcheggio alle spalle del Pub.
Una solo furgoncino.
Vetri appannati, contai almeno quattro sagome in controluce.
Conobbi finalmente questa Laura Gamberti.
Lo sceneggiatore aveva dato alla mia vicenda un finale prevedibile.

Mi ripresi con le minacce, foto alla mano, il posto che mi sarebbe spettato per merito: la giustizia, non so in quale delle sue declinazioni, aveva trionfato.
Il mio Preside di facoltà non si spiegò mai perché la mia collega avesse rifiutato quel posto ma alla lunga si mostrò soddisfatto del mio lavoro.

Eccoci di nuovo al presente: Ospedale San Carlo, Pronto soccorso, spiegai la situazione.
Mi sembrò d’udire un rullo di timpano d’orchestra alzarsi. Mi dissero di sedermi ed aspettare.
Un grosso orologio tondo mi guardava.
Teneva le sue lancette ferme per diffidenza verso me.

Rividi il laghetto del mio tempo e dimenticai la paura per quella serata, questa volta nel presentimento che tutto sarebbe finito per il meglio.
Provavo caldo, sentivo odore di mare mentre le lancette dell’orologio cominciarono a ballare su un ritmo tribale le 4, 4 e un quarto, 5 e 6…
Attorno al laghetto del mio tempo era sorta una bella spiaggia, il tempo si muoveva ad onde. Provavo alternatamente ansia e sollievo: cadevo dall’amaca e finivo di faccia nella sabbia, non respiravo temendo per il verdetto sulle condizioni di ‘Ntoni. Poi mi sentivo più sereno, respiravo e guardavo il sole.
Chissà per quanto restai in quel limbo.
Mi destarono alcuni passi.
Toc toc
-Permesso?
L’orologio acconsentì e riprese a scorrere fluido.
Fece il suo ingresso una donna di colore, alta e sulla quarantina, capelli biondi e vestita da Lady di fine ottocento. Non era decisamente un’infermiera.
-Salve Benedetto da quanto tempo è che aspetti?
-A dire il vero non lo so…
-Quanto ancora hai intenzione di attendere? Non hai ancora capito il vero motivo per cui sei arrivato qui?
Tacqui.
-Ho messo sotto un ragazzino, ‘Ntoni…
-Non hai capito niente come al solito. Allora, hai speso una vita puntando sulla velocità e cercando con frenesia di raggiungere mete indefinite. Hai placato la tua insicurezza con la ricerca di un obbiettivo ed uno stimolo sempre nuovo. È arrivato il momento in cui il tempo ti impone di fermarti e riflettere. Quanto tempo ancora hai intenzione di far durare il tuo tempo? Credi che sia più importante il tempo della tua epoca o il tuo tempo soggettivo?
-Non lo so, forse…
-È ora di trovare un equilibrio. Il tempo nell’universo è sempre esistito in relazione con lo spazio e tu che hai vissuto in funzione della velocità non ti sei mosso in corrispondenza…
-Non capisco…
-Hai squilibrato l’equazione: corrotto lo spazio attorno a te in funzione del tuo tempo. Sei andato troppo veloce senza fare un passo, hai corso solo nella tua frenesia interiore, il tuo talento, la tua velocità di spirito è stata spesa a discapito dello spazio attorno a te.
-Cosa c’è di male in questo?
-Nulla o tutto. Ma sta di fatto che non sei servito a niente. Questa volta il tempo e lo spazio, che tu hai mal speso, si prendono la loro rivincita e ti costringono a scegliere il tuo futuro senza concederti tempo per comandarlo.
Benedetto, vuoi tu rientrare nelle forme del tempo o preferisci correre il rischio di buttarle via per tuffarti, a tuo rischio, nella valle della vita atemporale senza spazio né tempo?

Aspettai ancora una mezz’oretta.
-Buondì, come posso aiutarla?
-Starei aspettando di sapere come sta il ragazzo…
-Quale ragazzo?
-Un certo ‘Ntoni, sa l’incidente d’auto, stanotte… L’ho investito con la mia automobile che è qui fuori.
-A u t o m o b i l e? Che cosa vuol dire?

E ‘Ntoni dov’era? E la mia Alfa? E la vita di prima?
Non mi importava adesso: ero solo un puntino del mondo ed un trattino sulla linea del tempo.
Libero di scorrere e ricongiungermi col perenne fluire e col essere intero, non più solo col mio tempo. Libero da me stesso. In questa libertà da spazio e tempo posso creare, scrivere, suonare.
Chissà se altri esseri umani faranno come me. Non sono Zarathustra, non posso guidarvi io.
Dovrete trovare la strada per la libertà assoluta da soli, io ve l’ho descritta.

Racconto scritto per concorso a tema "La rapidità"

domenica 20 giugno 2010

DALLE VITI ALLA VITA di Francesco Balacco


Il piatto si cosparse di rosso, sangue.
Il bicchiere s’infranse al suolo.
-Che schifezza è questa, Gianni?!
Evocammo il Settembre di ventotto stagioni addietro: l’ebbrezza del suo splendore avrebbe fuggito quell’istante.

Era meglio stare a mezz’aria, protetti dalle foglie, irrigati dal sole, nutrendosi di acqua e vivendo ancorati a quella terra polverosa, sotto lo sguardo del grande ulivo antistante.
Sole e luna si davano il cambio mentre l’asfalto li ammirava taciturno.
Stavamo presso una via che di notte si illuminò solo quando, trascinate da musica e soffio estivo, due ragazze ridenti risalirono dalla città per parcheggiare la loro auto lì. Spensero i fanali, a pochi metri da dove, tra la frasche, ero io con i miei amici.
-Adesso, qui?
-Sì, chi vuoi ci veda?
-Fammi finire l'ultimo sorso...
Gettarono dal finestrino una bottiglia scura.
Le loro lingue si intrecciarono e così anche i rosei corpi. Gemiti saffici morsero il buio.
Perché tanta follia? Tanta segretezza?
-Razza strana quella umana.- Mi rispose serafico un compagno.
Nascondersi a quel modo, come braccati, per consumare l’istintivo amore sembrava prova di tutta la loro stravaganza.
Noi grappoli d’uva, invece, nasciamo sotto gli occhi di tutti. Germogliamo dalle viti.
La natura ci crea, il mezzogiorno ci culla, il suolo ci nutre, la vite ci accudisce e gli uomini ci coltivano premurosamente, per poi coglierci.
-Man! Muv’t ca mò mu iè mizza dej! (Sbrigati, è quasi mezzogiorno)

A decine ci tagliarono con alcuni rami dalla vite rantolante che ci diede l’addio. I raccoglitori ci posero in ceste sulle loro spalle. Ogni tanto facevano capolino con occhi freddi e visi arsi, controllavano se la cesta fosse piena. Ci scaricarono con tanti altri grappoli.
Dal trattore vedemmo la strada. Le altre campagne sterminate.
Infine la "città". Gli uomini ne parlavano sempre.
Barriere disordinate, grigio. Gente a lavoro con le maniche rimboccate per il caldo. Vecchi umani si lamentavano del cattivo raccolto. Palme malinconiche ci sorrisero a bordi delle strade d'asfalto. Ci diedero il benvenuto: la città si chiamava "Barletta".
Castello Federiciano, colosso di bronzo, splendidi borghi e chiese medioevali da un lato, ortofrutticolo, industrie, maglierie e calzaturifici dall’altro. Laborioso villaggio che s’atteggiava a provincia.
In breve fummo smerciati e finimmo in grossi contenitori, nella “Cantina sociale”.
I moscerini sopra turbinavano come avvoltoi.
Dall’alto un coperchio annegò il nostro sguardo, il terrore inutilmente ci strinse l’un l’altro.
Udimmo un rullo, come di mille timpani prima di una battaglia. Si fece più forte fino a coprire il rumore dei grappoli pestati, assordante, sembrò sfondasse le pelli percosse.
Pareva finita.
Fu il calore.
La vista si opacizzò, tutto sembrò girare assieme allo stridere.
Scomparvero i grappoli, si dissolse il torchio.

Tutto si compresse per poi rinascere a nuova vita.

Liquido in fermentazione, mosto.
Ci colse una nuova allegria, gioimmo senza corpo, confondemmo le nostre anime. Scampata la paura diventammo unica essenza. Della campagna pugliese eravamo il figlio purissimo, pronto a maturare riposto in botte.
Passarono sette pazienti anni.
Rosso Barletta DOC.
Rosso secco squisito con secondi di carne rossa, formaggio o pollo. Nasce da selezionati vigneti d’Uva di Troia, Sangiovese, Montepulciano e Malbech nei pressi di Barletta, S. Ferdinando e Trinitapoli, nella Valle dell’Ofanto. Stagionato da due a sette anni nelle cantine della città della Disfida raggiunge una gradazione di circa 12 gradi. Si presenta alla vista di colore rosso dal rubino al granata, vinoso e fruttato all’odore, secco ed intenso al gusto.
“Madò, altro che il vino di Mbà Ruggiero!” Disse fra sé una paffuta signora sulla quarantina. Aveva afferrato quella bottiglia scura dallo scaffale, attirata dall’etichetta viola chiaro con caratteri bianchi.
Sedotta dal fascino di quelle parole così ben articolate, stava per adagiare il vino nel suo carrello, quando una grido razionale le impedì di farlo. Lesse il cartellino del prezzo e si domandò a voce alta:- Eh? Dieci Euro?? E che sta il tesoro dentro?
Un uomo vestito di camicia e garbo, udendo la signora, le si avvicinò.
-Mi permetto di consigliarLe, se desidera comunque il Rosso Barletta senza spendere altrettanto, là in fondo…- Indicò con la testa la sezione "vini" all'interno dello stesso centro commerciale, appena fuori l'enoteca in cui ci trovavamo.
-Vi trova pressoché la stessa qualità ma a un prezzo inferiore. Se la bottiglia di plastica e la minor stagionatura non sono un problema per Lei...
La signora compiaciuta della cortesia ringraziò e aggiunse:- Con quest’Euro, lo stipendio è quello, i prezzi aumentano, una volta altro che vino nella plastica!-
L’uomo accennò un sorriso, finse assenso con il capo e lesse a sua volta la mia etichetta. Dopiché afferrò altre bottiglie.
Finimmo così con le altre bottiglie su un tavolo di legno intarsiato. Dall’ampia vetrata s’intravedevano ulivi sporadici e rugosi, circondati da distese di grano rese ocra dalla declinante luce crepuscolare. Per terra nella sala vi era un tappeto rosso scuro. Gli arazzi che dominavano le pareti lasciavano intravedere mattoni di tufo. I mobili barocchi erano ricoperti di suppellettili di cristallo, porcellana, argento i cui riflessi creavano singolari giochi di luce sulla volta a crociera.
La sala si popolò di signore e signori. Comparvero accanto noi pietanze d’ogni genere.
Quello che doveva essere il proprietario, un uomo alto e in forma per la sua età, nuotava nei complimenti che piovevano in sala. “ Che arazzo! Quello cosa è, Dioniso?” “Primo d‘orecchiette ottimo, come sempre da te si mangia davvero bene.”
Si passò ai vini. –Stap!-
L’odore, non più frenato dal sughero, inebriò già i commensali. L’uomo ci afferrò e, versandoci in un bicchiere, lo portò distrattamente alla bocca facendone gran sorso. Il suo viso si infiammò, sputò in un piatto, che si tinse di rosso.
Sacrilegio.
La scena attirò l'attenzione di alcuni banchettanti. Tacquero. I loro sguardi si interrogavano del perché del gesto. L’uomo che ci aveva scelti entrò in scena.
-Mi permetto, signore, di farLe notare che questo vino è da accompagnarsi a secondi.
-Fa schifo comunque, Gianni!
-Ammesso che quel vino non Le sia stato gradito, mi pare, che gli altri siano stati di gusto ai suoi ospiti, come la cena preparata da…
-Sì va bene, adesso vai, dai...- Lo scacciò l’uomo.
La tavolata empatizzò per Gianni. E come spesso accade tra gli umani, lo fece con timidi e ambigui sguardi. Nessuno disse nulla o si mosse in sua difesa. Sdegnato, Gianni ci afferrò e ci portò con sé attraverso le stanze, fino a uno scantinato spoglio e umido. Si liberò dalla camicia e assaporò un sorso piccolo, poi più grande, grandissimo. Capimmo che avremmo dovuto aiutarlo noi.
La bottiglia era esangue per terra dopo pochi minuti.
Dal suo stomaco vuoto, veloce risalimmo alle tempie, esertondolo alla Veritas.
Intavolò un monologo con se stesso -Quel cafone arricchito, di vino e vita non sa nulla!-Hic!–Questo vino è ottim…-Singhiozzo- Gliel’ho fatta arredare io la villa, l’arazzo di Dioniso ecceter…-Hic- Dieci anni a lavorare, cucinare e servire vini. Onestà! È questo il premio? Sto coglio.- Hic!
Gli evocammo ricordi: da ragazzo, tra un sorso e l’altro, era stato sempre l’intenditore della compagnia. Gli studi e poi il lavoro da enologo privato, non era riuscito a trovare altro e la paga era buona e gli orari gli permettevano di lavorare su recensioni e manuali. Eppure accettare si era però rivelato un errore.
A intermittenza lo afferravamo per la base del cranio, dissolvendogli vista, udito e tatto, rendendoli un unico e confuso sentire. Gianni si alzò e risalì le stanze, instabile.
Spalancò la porta:- Mi licenzio! Vada al diavolo coi suoi modi arroganti. Io sono come il vino! Vado capito, ca-pi-to. Non disprezzato. Vada a coltivare le viti, veda fermentare il mosto, lo imbottigli e capisca cosa c’è dietro, cosa disdegna sputando un buon vino! Mani, sudore, passione, sangue. Ignorante!

Gli umani scoprirono il vino molti anni addietro ma gli diedero subito mille scopi: far nascere un amore, creare e rompere amicizie, addolcir la poesia, conferir armonia alla musica di compositori mediocri.
Noi, liberammo un uomo.



Racconto scritto per un contest tematico: Il vino

AND JUSTICE FOR ALL di Francesco Balacco


-Apra o sfondiamo la porta!

Sul pavimento mio padre, insanguinato come le volpi che cacciavamo assieme quando ero piccolo.

Quando mi arrestarono stringevo ancora la sua Beretta 96.



31 anni, spara al padre.

Il giovane era affetto da disturbi da tempo. Gli inquirenti indagano ma si pensa al raptus.



-È stato un incidente, le giuro, non è preterintenzionato nulla! Volevo bene al Babbo! Non era lui il bersaglio, ero io! Se solo mi avesse lasciato morire, farmi fuori… Le giuro- Dichiarai piangendo in Tribunale.

L’avvocato si sforzò perché la verità venisse fuori. Fu trovata nelle cartelle del mio PC.

Basta. Domani porrò fine al martirio della mia passione e volontà. Otto anni di studi, master, anni di concorsi e corsi inutili. Raccomandati dentro, io fuori. Sono stanco di mendicare: tenetevelo il vostro posto privilegiato. Mi ammazzo, mi ammazzo! Così col mio cadavere farete mangiare chi vi sta più simpatico. Preferisco ammazzarmi con un colpo secco che accontentarmi e condannarmi ad ingoiare a vita i cocci dei miei sogni frantumati.

Fino allora ero stato una comparsa che aveva sperato a lungo di interpretare il ruolo del protagonista e, stancatomi di recitare, volevo andarmene così, senza effetti, da comparsa.

Mio padre, scoperto tutto, tentò di tirarmi fuori dai guai anche stavolta, bloccandomi mentre premevo il grilletto. Scrisse un colpo di scena inaspettato: la pallottola gli recise la femorale, dandomi una seconda occasione. Mi iscrisse contro la mia volontà ad un nuovo provino.

-Non ci provare più, promettimi solo questo… Dio esiste. È buono e giu…

Avrei dovuto completare la parola, ma ci credevo meno che mai.

A sei mesi dal fatto stavano per assolvermi. Non l’avevo ammazzato, era stata una disgrazia.

È giusto così, si diceva.

La giustizia degli esseri umani, del codice penale, aveva fatto il suo corso, provando la mia innocenza.

La giustizia della forma e del mio nome onesto stava trionfando, dimostrando a tutti che non ero assassino di nessuno, se non di me stesso.

Al mio avvocato, che aveva ben curato l’arringa, spettava la giusta ricompensa in fama e contanti.

Forse solo una giustizia si era bloccata.

Sapendo della mia incombente assoluzione, il mio petto si fece grigio, pesante. Sentivo ingiustamente la bilancia rovesciata dal mio lato, da quando, dei due piatti era rimasto pieno solo il mio e mio padre era scomparso sull’altro.

Non ci sono vocine a suggerirti come sentirti in certi momenti o cosa fare.

Vivevo chiuso nel mio sguardo

Provavo nausea, lercio fin dentro le ossa.

Optai di scarcerare la giustizia vera.

Essa non aveva mai avuto codici, agognata da molti che avevano desiderato possederla, era sempre fuggita restando con qualcuno solo per poche, brevi, illuminazioni.

Eserciti si erano immolati seguendola. Profeti presunti o falsi l’avevano urlata, convincendo provvisoriamente tutti. Era stata il seme d’ogni disputa.

La giustizia che ciascuno vive dentro di sé.

Quel respiro che rigenera ogni uomo quando compie un’azione sana.

Quel respiro, che gonfia il petto e ci addormenta sereni.



Confessai un omicidio mai commesso.

Vidi il mio legale dannarsi come un crociato dopo aver perso una reliquia.

Ma intanto con me in carcere, la giustizia di ciascuno era di nuovo in giro, pronta a sedurre e a liberare qualcun altro.

E poi… ero recluso solo fisicamente. ;)




Lo trovate anche su: http://www.babyloncafe.eu/justice.htm